medina zabo /// esercizio di decenza /// VOLUME 2
Testo critico di Michela Becchis
Le opere di Medina Zabo non sono istallazioni, sono assemblaggi nel senso biologico del termine, cioè “processi per cui vari componenti si uniscono tra loro per costruire strutture complesse e ordinate” e fondamentali.
Ma per intenderne la complessità è necessario davvero pensarle come la disposizione, assemblaggio appunto, che i ribosomi compiono trasformando e traducendo un infinito numero di informazioni fondamentali in catene di aminoacidi.
I capelli della Madonna o di Sierva Maria o delle parrucche asiatiche delle nigeriane
I capelli della Madonna sono bellissimi e pronti ad adattarsi allo spazio e al tempo della devozione, anche quello della sura XIX. E poi si adorano come reliquia in così tante chiese sparse ovunque e in tante gradazioni cromatiche da far pensare ad una chioma che si è autorigenerata nel tempo della sua vita innumeri volte, miracolosamente più della fisiologia. I suoi sottili capelli da bambina non sono peccaminosi, benché sempre acconciati all’ultima moda e segno di vezzoso lignaggio, al punto che con alcuni capelli poteva stringerci missive come quella lettera, scritta come da una compunta e benevole imperatrice, inviata ai messinesi e chiusa da una sua ciocca quasi come un pegno d’amore senza che quell’amore potesse mai essere eros. E poi, appunto, diventano reliquia, resto taumaturgico ma fermo, immobile e gelido nella sua visibilità sacra. Non sono certo i capelli di Sierva Maria, la bambina di Dell’amore e altri demoni di Garcia Marquez, che dalla sua morte erano cresciuti ventidue metri e undici centimetri, di un rosso meraviglioso e di perdizione come solo il vero demone dell’amore sa essere. Sierva Maria nobile cristiana e yoruba, “la cui chioma le strascicava appresso come la coda di un abito da sposa, che era morta di mal di rabbia in seguito al morso di un cane, e che era venerata nei paesi dei Caraibi per i suoi molti miracoli”, capace di parlare tutte le lingue d’Africa come lingue dell’inferno dentro un convento in cui amerà il suo esorcista. I capelli rossi, simbolo di un demonio, della animale follia del mondo che rinchiude per non perdersi, di un perturbante che è vita ed è miracolo della vita che vuole testarda continuare oltre le convenzioni. Venerati e temuti i capelli di una piccola bianca che non temeva giudizi.
In che giudizio si infilano invece la maggioranza delle donne della Nigeria? Fanno infuriare le femministe afro che denunciano un asservimento agli ideali occidentali di bellezza duro a morire. Donne, milioni di donne che negli ultimi anni hanno consegnato al loro Paese il primato del mercato mondiale di parrucche ed extension. “Solo nel 2018 la Nigeria ha importato oltre 3.600 tonnellate di capelli: umani, animali e sintetici. Se solo la metà fossero di provenienza umana, si tratterebbe delle capigliature di dieci milioni di persone” si legge su un articolo in rete “spesso ad essere coinvolti sono Paesi non democratici. Il quarto esportatore mondiale di capelli, ad esempio, è il Myanmar.” Una sorta di tragica catena di capelli globalizzati che parte ancora da un dettato estetico alla fine maschile, occidentale e cisgender.
Che giudizio si annida, dunque, come un parassita, dentro i capelli delle donne, veri o finti che siano? Forse, in primo luogo, quello di altri femminili conformi a un quadro dato e a loro esterno? Il femminismo giuridico si interroga su cosa possa essere il giudizio di genere dentro la norma e forse conviene ragionarne anche in quel normale giudizio che nell’essere tutto dentro un quotidiano appare più come una inoffensiva opinione. Scrive Anna Simone in Femminismo ed esperienza giurdica “Se nel rapporto diritto/diritti/giustizia e pensiero femminista è sempre la tensione verso la giustizia a prevalere, Antigone e Porzia (la protagonista risolutrice del Mercante di Venezia) rappresentano due gesti femministi diversi, contro e dentro la legge, dentro e contro il diritto, eppure anch’essi mossi solo ed esclusivamente da un’idea di giustizia non prevista dalla Legge del Padre”.
Nella regolare scansione delle parrucche che Medina Zabo pone su una mensa (ex) sacra, si ordina e scioglie, pur nell’inestricabilità di una complessità che non vuole certo essere celata, il passaggio dalla δόξα all’accoglienza del giudizio e del suo mutamento. Sulla mensa si stende una mappa nel suo senso classico, una sorta di tessuto polisemantico che copriva il capo femminile, che – rosso – l’imperatore o il magistrato gettavano nell’arena per dare inizio alle corse, con cui i bestiarî nel circo eccitavano gli animali, che avvolgeva le mani che toccavano arredi liturgici, che accoglieva la scrittura degli editti. La mappa è sacrale e bestiale al tempo, è sostanza elementare e forma altissima della rappresentazione del potere sacro e desacralizzato ma non secolarizzato. È norma. La stessa norma che crea la precisione del progetto e che mentre la crea ci infila e ne contempla la possibilità dello scarto. Zabo progetta un cosmo sapendo che non servirà ad annullare il caos, fabbrica e forgia idee e concetti che abbiano all’interno uno spazio per problemi estranei, innescati dal sovvertimento del giudizio come dall’intervento di creature che nell’ordine utilitaristico e tassonomico occupano il gradino del fastidio,come il pensiero che si insinua nella linearità del ragionamento sapendo che la linearità non esiste.
Della linea retta e della validità di un proverbio
Nel racconto fantastico a più dimensioni intitolato Flatlandia, scritto nel 1882 dal reverendo Edwin Abbott, leggiamo “Niente è visibile per noi, né può esserlo, tranne delle linee rette; e il perché lo dimostrerò subito. Posate una monetina nel mezzo di uno dei vostri tavolini nello spazio, e chinatevi a guardarla dall’alto. Essa vi apparirà come un cerchio. Ma ora, ritraendovi verso il bordo del tavolo, abbassate gradatamente l’occhio (avvicinandovi così sempre più alle condizioni degli abitanti di Flatlandia), e vedrete che la monetina diverrà sempre più ovale; finché da ultimo, quando avrete l’occhio precisamente all’altezza del piano del tavolino (cioè come se foste un autentico abitante di Flatlandia), la moneta avrà cessato di apparire ovale, e sarà divenuta, per quanto potrete vederla, una Linea Retta”. Una cosa tonda che diventa una retta. No, una cosa tonda che il nostro movimento trasforma in una retta, meglio. In Flatlandia le donne sono linee rette, un elemento geometrico base. Ebbene, cosa rimane di questo libretto geometrico moraleggiante oggi? Quasi nulla, se non la verità del quotidiano e inconsapevole agire. Quasi nulla, se non come notava Albert Einstein nel 1920, quella quarta dimensione che “racchiude la totalità del passato e del futuro”. Il Tempo, appunto.
E di tempo usato come pena esemplare forse si può scrivere. Esistono, sparse in tutta Europa, le Veneri steatopigie, piccole statuette femminili molto tonde, molto tridimensionali, molto erotiche. Le loro forme prospere sono segno di fiducia nella terra, molto probabilmente di una terra non percorsa da armi, razzie, sottomissioni, efferatezza, violenza. Insomma, non “Pulsanda tellus”, non calcare la terra, consumarla, ma sentirsene parte come di una possibilità aperta e infinita di fertilità. La Storia prima del patriarcato. Medina Zabo assume quel piccolo corpo tondo come paradigma di una mutazione violenta, di un prolungato gesto crudele. Esegue quell’”abbassare gradatamente l’occhio” di cui scrive il Quadrato protagonista del libro di Abbot e trasforma la pacifica carnalità del corpo azzerandone il volume. Azzerare il volume di un corpo è azzerarne il potere comunicativo, linguistico, performativo che quel corpo ha in sé. Trasformarlo, appunto, in una linea retta.
Cos’è quindi che effettivamente riduce violentemente a una linea retta? Si potrebbe provare a dire che è l’obbligatorietà di assumere un punto di vista e uno solo che cancella di fatto la spazialità esistenziale del soggetto. “Non si dà nessuna costruzione del proprio sé, nessuna poíesis, al di fuori di una specifica modalità di assoggettamento, e quindi nessuna costruzione di sé al di fuori delle norme che orchestrano le forme possibili che un soggetto può assumere” scrive Judith Butler in Contingent Foundations: Feminism and the Question of “Postmodernism”. Si può aggiungere che, benché nell’assoggettamento la filosofa intraveda anche lo spazio per il conflitto, la resistenza, per la rivendicazione dello spazio, quello stesso spazio che Zabo lascia a disposizione dell’imprevisto naturale, ciò che rimane come il pericolo più temibile è che in quella sottrazione del volume risieda la sottrazione del simbolico e la cancellazione dell’autonomia della narrazione. Compiuta quella che l’artista chiama infatti flat-izzazione, infatti, c’è la restituzione del nuovo volume, esterno e estraneo alla rotondità primigenia. Un volume che è sostanzialmente di “materia altra” sia essa luce o elio, un volume che diventa non più inammissibile ingombro, ma utilità. La critica dialettica di Zabo occupa a sua volta uno spazio che si insinua in ogni aspetto della a-dimensionalità: cosa guardiamo, ad esempio, quando di un oggetto artistico che non prevede la grammatica espansiva, vediamo la sua imposta “realtà aumentata”?Ciò che si spaccia per arricchimento della percezione è in realtà un atto straordinariamente violento che imbusta ciò che, disturbando Kant, si può chiamare il libero gioco tra intelletto e immaginazione. Anche questa è una distruzione del simbolico. Cosa non guardiamo delle migliaia di immagini che si fanno scorrere su un social? Non guardiamo quel che non è apparenza dell’oggetto artistico, in definitiva quello che trasforma una “cosa” reale o virtuale in oggetto artistico.
La restituzione dei volumi è quindi rapina definitiva del peso specifico cioè del rapporto tra il peso di un corpo e il suo volume, tra il peso della sua storia e lo spazio della propria narrazione. È creazione di un simulacro.
Il proverbio che recita Chi nasce tondo non può morire quadrato sembra, arrivati fin qui, un popolare auspicio di resistenza.
esercizi VOLUME 2
esercizio 1 _ stendi il manto_
piano mensa dell’altare
9 parrucche sintetiche modello togo girl, moquette rossa bouclè conservata dagli anni ‘80, 190×70 cm
2022
esercizio 2 _ potnia xy22
piano mensa dell’altare
postproduzione digitale della ricostruzione grafica della statuina muliebre cosiddetta venere del trasimeno (cfr. blanc 1954, radmilli 1974, fugazzola 2001), lightbox, 3x7x21x21
2022
esercizio 3 _everlasting nymph (nympha perenne)
antica pura lana vergine lavorata con ossido di manganese e spray aerosol, filo di acciaio per saldatura, dimensioni variabili
2022
esercizio 4 _birth suit/e (o nuda madre)_
sacchetti sottovuoto sagomati su ricostruzione grafica della venere del trasimeno (blanc 1954, radmilli 1974), elio, bacchette di plastica per party, dimensioni variabili
2022
tributo a spolia 5_ bestiario post atomico – il vermocane
area esterna, cartello lavori in corso
pelliccia sintetica, pittura aerosol &fosforescente, mixed media