statement
Il mio lavoro si radica nel facilitare incontri con fenomeni dell’imprevedibile, in habitat auto-ripristinati, attraverso l’impermanenza e la percezione soggettiva. Mi ha sempre affascinata la modalità con cui l’adattamento e l’incarnazione si intrecciano come confini complementari tra regni in evoluzione. desidero Stabilire nella dimensione cromatica un percorso liminale di scoperta che ci invita a coltivare relazionalità ibrida, semplicemente osservando come ci attiri l’incanto effimero della grazia della natura e il bisogno di un luogo sicuro a cui appartenere, all’interno dei meccanismi di camuffamento e di mimetizzazione.
La scienza suggerisce che tutto ciò che sfugge al nostro controllo è un terreno insidioso: credo piuttosto che non possiamo emanciparci dall’esistere all’interno di uno stesso terreno sulla Terra. Rispettare i suoi ritmi di decadenza e trasformazione rappresenta il quadro ultimo in qualsiasi ecologia sociale. e Questo, in definitiva, appartiene al nostro essere un sottosistema generativo.
Dal mio punto di vista, la scultura è più un atteggiamento sociale verso il “benessere” e la conoscenza, invece che un semplice sviluppo tecnico per produrre oggetti da inserire in spazi. Sotto gesti strutturati c’è vita, c’è morte. Strati di colori permettono organicamente agli organismi di reclamare i loro habitat interrotti, per portare finalmente a compimento processi primordiali, indipendentemente dai nostri interventi.
Anche noi ci nascondiamo sotto camuffamenti culturalmente informati: Chiedo allora al pubblico di scegliere se soffermarsi sulla superficie apparentemente innocua o immergersi più a fondo e affrontare il fallimento come premessa per altri discorsi non visibili. Questo rappresenta il manifesto: affinché l’auto-determinazione possa manifestarsi.
Il processo di metamorfosi è il cyborg definitivo?
L’interrogativo è emerso nel 2013, quando mi sono ritrovata sotto lo stesso tetto con una famiglia di api mellifere. Improvvisamente sono sciamate in casa e si sono insediate, segnando la prima di molte visite da parte di abitanti volanti. Questa esperienza con il tempo si è gradualmente fusa con le ricerche sullo spreco di risorse, la corruzione e l’ingiustizia sociale che avevo affrontato nella mia carriera precedente. Gli incontri non-umani hanno messo in luce i limiti dell’elaborazione verbale e dell’osservazione scientifica, per cui ho scelto di dedicare la mia ricerca esclusivamente alle arti visive. Ulteriori sviluppi hanno quindi espanso la mia pratica artistica verso il processo di metamorfosi, sia come metodo di lavoro che come paradigma euristico, da molteplici prospettive. Dopo un interesse iniziale per gli studi del premio Nobel von Frisch sul linguaggio delle api, seguendo poi sociobiologi contemporanei, il mio campo di ricerca ha presto intrecciato l’antropologia e la prospettiva queer del “going-gaga”.
Da un decennio collaboro con falene e altri impollinatori per ripristinare le funzioni degli habitat nativi funzionalmente interrotti dagli standard produttivi umani: promuovo la pratica del fallimento come risposta ai diversi contributi biologici che coinvolgono specie più-che-umane, così come il concetto di “alterità” nelle nostre comunità. I materiali organici scartati, che raccolgo meticolosamente direttamente dalle attività industriali, sono dei veri e propri archivi viventi, alla stregua di frammenti archeologici che danno senso al presente biologico.
Per me, praticare arte significa mettere in primo piano posizioni irrisolvibili e portare alla luce un riconoscimento etico delle ecologie contemporanee nel pubblico. Il “diversamente” evoca la stessa esperienza di osservare un nido in costruzione in un luogo che ci si aspetta sia domestico: emerge come un organismo effimero, goethiano, auto-determinato, di cui tutti noi, a nostra volta, siamo responsabili. Coltivando una conoscenza intima attraverso la materialità e facilitando l’infinito processo di vita e morte, il mio approccio cerca di rivendicare una ripresa negoziabile dopo interruzioni o distruzione. Da quale parte, però?
I metodi del processo creativo si basano sulla stratificazione e l’assemblaggio; sono informati dalla manipolazione intensiva di rifiuti unici provenienti dall’apicoltura, scartati a causa di infestazioni da falene e soggetti a ulteriore sviluppo da parte degli impollinatori, indipendentemente e nonostante gli obiettivi umani. Ogni strato di intervento trasmette un registro archivistico dell’intreccio tra le specie e la loro convivenza nel tempo. In questi atti di cura sincronica e richiami al dovere, intendo ricalibrare continuamente posizioni, nonché soggetti, affinché il pubblico possa accettare o rifiutare l’esistenza di confini ambivalenti, o entrambi, siano essi ecologici, artificiali o ibridati da imbricazioni artistiche.
Questo processo complesso è un fallimento o una forma di resilienza? O solo per noi?